Cantine e vino

Lieviti selezionati o lieviti “nativi”?

Nel passato, ma anche recentemente, i protocolli enologici utilizzati contemplavano l’assenza dell’utilizzo di lieviti selezionati affidandosi unicamente a fermentazioni spontanee sostenute dalla microflora presente sulla bacca ed eventualmente nell’ambiente di cantina annidata su diverse superfici, veri e propri “microambienti”, quali muri, attrezzatura enologica, botti, ecc.

In queste fermentazioni spontanee, o naturali, partecipano diversi generi quali Kloeckera, Hanseniaspora, e Metschnikowia, nelle fasi iniziali, da Candida in una seconda fase del fenomeno fermentativo fino a 3-4% di etanolo, e da ceppi tolleranti al tenore alcolico del tipo Saccharomyces cerevisiae nelle fasi finali: altre specie del tipo Schizosaccharomyces, Torulaspora, Zigosaccharomyces, e soprattutto Brettanomyces possono intervenire nel processo influenzando la qualità finale del vino in modo negativo.

La situazione cambiò radicalmente grazie all’attività di Hansen che per primo isolò nell’ambito dell’industria birraria una coltura pura e verso fine 800 quando Muller-Thurgau propose la tecnica dell’inoculo nella fermentazione enologica con colture pure di lievito (ceppo starter).

Come detto in premessa, la pratica delle fermentazioni spontanee, o naturali, è continuata, nell’enologia delle piccole cantine (Vin de garage o situazioni similari) in virtù di una filosofia di produzione che attribuiva ai ceppi di lievito “nativi”, selezionati solitamente da vigneti “storici”, qualità organolettiche superiori: va detto che ancora oggi, aziende di nicchia e/o trendy, accettano tutta una serie di rischi tecnologici potenzialmente negativi nella logica di raggiungere caratteristiche organolettiche originali rispetto alla varietà autoctona di origine, esaltate in uno stile aziendale riconoscibile e distintivo.

L’utilizzo di popolazioni miste di popolazioni blastomicetiche può sicuramente contribuire ad esaltare le caratteristiche sensoriale tipiche varietali, conseguenza di una più elevata concentrazione in glicerolo e in altri alcoli ad alto peso molecolare prodotti da lieviti indigeni; inoltre il “ritardo” o “inerzia” fermentativa consente una più efficace reazione dell’ossigeno con le antocianine e con altre sostanze fenoliche, con associata migliore stabilità del colore rosso.

Va però precisato che spesso il carattere distintivo (o “stile”) del vino a fermentazione naturale o spontanea è un evento casuale, inevitabilmente dipendente dal numero di cellule espresse in unità formanti colonia (ufc/mL), dalla diversificazione tassonomica, dalla composizione chimica dell’uva e dal protocollo di vinificazione, tutti fattori altamente variabili e la cui combinazione sortisce un risultato finale di difficile previsione. Proprio la mancanza di elementi oggettivamente predittivi costituisce il principale ostacolo nel consigliare tale tecnica unitamente alla considerazione che spesso il risultato finale risulta anche molto diverso da ciò che ci si attende all’inizio della fermentazione. Allo stesso tempo tale incertezza costituisce di per sé il migliore stimolo nell’adozione della fermentazione spontanea per i vinificatori che ritengono che i contributi sensoriali originali delle diverse specie di lieviti conferiscano complessità, “pienezza” e “rotondità” al vino che non si può paragonare con fermentazioni inoculate e guidate.

Il dibattito tra queste due correnti di pensiero come si nota è ancora aperto.

Comunque la si pensi, è indubbio che uno dei problemi più importanti dell’industria enologica moderna è il miglioramento qualitativo delle caratteristiche organolettiche del vino, quella che viene definita la qualità percepita, nel pieno rispetto del concetto più ampio di terroir. Per raggiungere questo risultato si può intervenire su molti fattori, sulla tecnica agronomica, sulla cinetica di maturazione, sul protocollo di vinificazione, ma soprattutto sulla scelta della microflora: infatti, i ceppi di lievito detti “specifici”, attraverso la loro capacità metabolica, sono capaci di valorizzare la tipicità varietale e ambientale delle varietà native. In avvenire il fattore lievito sarà sempre più considerato come un elemento fondamentale di qualità, in grado di guidare i processi microbiologici verso l’espressione dei precursori d’aroma caratteristici della varietà.

Allo stato attuale fortunatamente sono disponibili numerose ed approfondite ricerche scientifiche, nazionali ed internazionali, circa il processo fermentativo e i fattori biochimici e microbiologici in esso coinvolti, ma soprattutto si registra una maggiore conoscenza e confidenza da parte degli enologi rispetto l’applicazione di questa tecnica unitamente ad un crescente interesse a valorizzare la tipicità varietale e la qualità globale anche attraverso l’applicazione di protocolli e di tecnologie enologiche innovative, che prevedono eventualmente l’uso di colture starter selezionate da vigneti “storici”, con forti legami con il territorio di origine e “testimoni” biologici del genius loci alla base del concetto di originalità delle produzioni autoctone o native.

2 commenti

  1. Ottimo articolo, in cui l’autore è stato abile a non schierarsi in modo netto, con il risultato di fare buona e corretta informazione senza suscitare polemiche su un classico argomento come questo, che a me sta molto a cuore. Perché è attraverso la microbiologia che mi sono avvicinato al mondo del vino ed odio sentir dire, da anni, tante sciocchezze riguardo ai lieviti.
    Mi auguro che si capisca il valore di identificare ed isolare la microflora dai propri vigneti, per poi farne starter ed innescare le proprie fermentazioni, sicure e individuali allo stesso tempo.

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