Il termine “comunicare il vino”, così come “le parole del vino”, hanno rappresentato due slogan con un effetto ciclico nel mondo della descrizione organolettica, emozionale e commerciale del vino: infatti, tante, troppe, sono state le parole impiegate per raccontarne le sfumature, oppure gli attimi indefiniti di una sensazione, spesso con l’unico scopo di dimostrare la propria superiorità di saper degustare, ma soprattutto, spesso, la propria capacità di trovare termini originali a tutti i costi. Sicuramente tra le parole più abusate del vino dobbiamo annoverare quelle, le cui interpretazioni sarebbero sfavorevoli al vino stesso, oppure all’idea commerciale che se ne vuole dare: queste, a detta degli indagatori della comunicazione anglofona, sono le parole con un flusso distorto, come vin boutique, o peggio vin de garage; parole che non hanno motivo di essere più usate.
Il fenomeno dei vin de garage, almeno inteso nella sua forma originaria, oggi è passato sicuramente in secondo piano; come abbiamo visto, in sostanza si è trattato, almeno per quanto riguarda specificamente il Bordolese, di una moda che ha riguardato vini molto concentrati, ricchi di struttura, affinati in barrique e quindi piuttosto tostati e affumicati, tali da distinguersi nettamente dai tradizionali Cabernet e Merlot, eleganti e raffinati, ma sicuramente bisognosi di lunghi affinamenti in bottiglia per esprimere appieno i propri aromi e per armonizzare la presenza del patrimonio tannico.
Banchiere, trasformato-enologo, Thunevin, padre fondatore assieme a Francois Mitjaville del fenomeno garagista, incarnò allora la figura del produttore di Bordeaux iconoclasta, fieramente indipendente, con il suo micro-cuvee Valandraud, lanciato nel 1991: il suo vino, che raccolse elogi smisurati da Robert Parker, rappresentò una tendenza peraltro ferocemente criticata fin dall’inizio per essere anti-terroir. Ora Thunevin in una recente intervista alla Revue du Vin de France afferma che i “vini de garage sono fatti dai viticoltori che cercano di compensare una mancanza di mezzi e poveri terroir applicando tecniche moderne ed innovative”. E lo stesso Mitjaville, di Chateau Tetre Rotebeouf, rinforza la critica denunciando che “il vin de garage non ha nessun potenziale di lungo termine. Io preferisco il termine petit-cru, perché vin de garage non si basa su nessuna nozione di terroir”.
D’altra parte molti critici hanno sempre contrastato il termine garagiste, coniato allora da Michel Bettane, critico della Revue du Vin de France e ora mettono in seria discussione il concetto stesso di basso rendimento in vigneto, di vini molto maturi e estratti esagerati di queste micro-cuvées. Stephane, consulente a Bordeaux, crede che il successo del vino prodotto in queste condizioni di solito si riduce al trionfo del marketing sulla qualità e afferma che “la maggior parte di tali vini non sono di alcun interesse: il grado di maturazione, la concentrazione e la quercia non sono sufficienti per fare un buon vino”.
Stephen Browett di Farr Vintners ha detto “era molto di moda dire: la mia resa in vigneto è inferiore alla tua, il mio punteggio di Parker è molto più alto del tuo, il mio vino è più intenso del tuo”: ora i consumatori si rivolgono a produttori famosi e grandi terroirs dal valore riconosciuto.
Ancora oggi, comunque, nascono nuovi vin de garage prodotti in pochissimi esemplari che colpiscono particolarmente la critica impennandone immediatamente le quotazioni, ma si tratta di vini non più ancorati a regole ben precise ma che si distinguono più per uno stile lineare che per un preciso vitigno oppure per un utilizzo smisurato dei legni, soprattutto per il punto di vista del consumatore moderno. Oggi il termine garagistes si riferisce ormai a individui che producono vini in quantità davvero limitate, spesso facendo molto lavoro essi stessi: raramente hanno collegamenti a grandi investimenti di capitale o profonda ricchezza in tasca, non sono suggestionati dalle tradizionali credenze e spesso diffidenti nei confronti della mentalità predominante. Sono tanto imprenditori che agricoltori.
Arriva dalla Grande Mela la nuova frontiera (e la provocazione) del vin de garage, ovvero gli impianti di micro-vinificazione apparsi in Francia alla fine degli anni ’70, che hanno riscosso successo solo nei primi anni ’90 grazie a “garagistes” di talento come La Mondotte, Péby-Faugére, Gracia e Rol-Valentin.
Una produzione di nicchia, quelle del vin de garage, mai completamente tramontata ma che a New York, dato che di garage ce ne sono veramente pochi, si è trasferita direttamente nel salotto di casa. Così accade che nel suo appartamento di 50 metri quadrati ad Alphabet City, nel cuore dell’East Village di Manhattan, il wine lover italo-americano Matthew Baldassano ha creato il suo Village Winery Club: 750 litri di vino all’anno, prodotti da uve provenienti da ogni angolo del mondo, oltre alla possibilità, per tutti coloro che vogliono sostenere il progetto, di iscriversi al club e seguire tutte le varie fasi della vinificazione, lavorando al grandioso obiettivo di vedere le bottiglie di Village Winery Club nei locali alla moda di Manhattan.
Un vin de camarin (garage) in Friuli: una proposta e una provocazione.
Da alcuni anni ho la fortuna ed il grande privilegio di aiutare un vero garagista friulano a Fagagna, nel cuore del Friuli. L’amico Renzo (tralascio il cognome perché notissimo grafico e fotografo), con la collaborazione della attenta sorella e di una appassionata nipote, produce solamente 2000 bottiglie di vini autoctoni friulani, destinate ai pochi, fortunati, amici, tra i quali un Pignolo passito su graticci, decisamente emozionante. Renzo incarna il vero spirito dell’originario garagista, fiero e strenuo difensore del suo territorio e delle sue eccellenze, autentico viticoltore a kilometro vero (non zero!): in questo spazio veramente ridotto, ma ristrutturato secondo charme, si sperimentano antichi (qualche critico li definirebbe obsoleti) metodi enologici finalizzati all’esaltazione delle varietà locali, rese uniche dall’interazione con un terroir originale, che fonda le radici nel Friuli storico.
Questi locali delle antiche case agricole sono un elemento comune praticamente in tutti i borghi rurali delle straordinarie realtà regionali italiane. Nella lingua friulana vengono definiti camarin, che non era l’altro che la dispensa di casa, dove trovavano posto le vere ricchezze della società rurale, formaggio e salame, vino e conserve, tanto importante che solitamente le chiavi (talora anche pesanti), venivano gelosamente conservate appese alla cintola del padrone di casa.
Il termine camarin in Friuli (in altre realtà regionali si potrà senz’altro pescare nella tradizione locale per trovare analoghi significati), proprio per le sue forti radici storiche, culturali e tradizionali, potrebbe a mio avviso sostituire brillantemente una parola quale garage, che evoca sostanzialmente spazi promiscui nei quali convivono oggetti non più in uso e modernariato di dubbio gusto e non ha nessun rapporto culturale con il territorio.
Si badi bene però che non deve apparire come una mera questione semantica oppure, peggio, come una banale operazione di ricordo nostalgico e arcadico di una società contadina ormai scomparsa, ma al contrario queste micro-cantine rappresentano un vero presidio di sapori e saperi fortemente connessi alle tradizioni popolari, a rischio di globalizzazione e banalizzazione del gusto.