Cantine e vino

La biodiversità della vite

 

 Il termine di biodiversità, entrato nel linguaggio comune dopo la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED) di Rio 1992, è la contrazione di “diversità biologica”, espressione con la quale si identifica la diversità della vita sulla terra.

Nel suo significato etimologico biodiversità significa diversità biologica, diversità degli esseri viventi che popolano la terra e che può essere rilevata sia a livello molecolare, genetico, sia a livello di specie, ma anche a livello antropologico, e più in generale, a livello di ecosistemi nei quali si collocano gli esseri viventi.

La diversità biologica viene classificata a livello genetico, di organismi viventi e di ecosistema. Secondo tale definizione, che spazia dalla varianza del patrimonio genetico del singolo individuo sino all’insieme della varietà biologica di ecosistemi complessi, la biodiversità tende a coincidere con quello che viene definito il capitale naturale; nell’analisi degli aspetti ambientali ed economici, è importante, quindi, precisare, di volta in volta, di quale segmento ci si occupa.

La biodiversità non va però ridotta semplicemente alla diversità (specificità) genetica. La diversità del mondo vivente ha molti aspetti: vi è diversità fra gli ambienti (marino, terrestre, equatoriale, polare, di montagna), fra le specie e fra gli individui all’interno di una specie ed è il risultato di un lento e continuo cambiamento che coinvolge la terra nel suo insieme, dalla geologia al clima agli esseri viventi.

Per questi motivi essa va studiata sotto diversi profili, biologico, antropologico, economico, geopolitico, giuridico, ecc. E’ fondamentale anche tenere in considerazione la componente relazionale della biodiversità, perché essa è frutto di un processo in cui tutte queste componenti interagiscono e, più in particolare, scaturisce dalla forte interazione fra profili biochimici ed antropologici, tanto che si deve parlare propriamente di sistemi bioculturali.

Purtroppo il dibattito internazionale non concepisce la biodiversità in tale sua complessità e tende a sminuirne la vastità e la portata. Bisogna considerare infatti che le stesse risorse genetiche sono al tempo stesso beni di consumo e beni strumentali alla produzione di altri beni, ma spesso a livello internazionale vengono considerate solamente come commodities.

 

Vite selvatica e vite domestica. Le scoperte archeologiche degli ultimi anni e le potenzialità della biologia molecolare permettono oggi di affrontare il problema dell’origine dei vitigni sotto una diversa prospettiva, partendo dalla determinazioni dei rapporti genetici di parentela tra vite selvatica (Vitis vinifera L. ssp. sylvestris) e vite domestica (Vitis vinifera L. ssp. sativa).

La vite selvatica cresce spontaneamente nei corsi d’acqua dei Paesi che si affacciano nel bacino del Mediterraneo, dal Portogallo al Tagikistan, lungo i maggiori fiumi continentali dell’Europa occidentale e nell’Africa del Nord (Arnold et al, 1998) ed è una specie dioica con una rara presenza (5%) di individui ermafroditi.

Dal punto di vista della biologia vegetale, è una liana rampicante che, allo stato naturale, risale i tronchi degli alberi delle foreste, fino a raggiungerne la sommità, dove fiorisce producendo poi i propri acini: gli uccelli apprezzano molto questi frutti, gustosi e facilmente accessibili, e cibandosene ne diffondono i semi, perpetuandone così la specie.

Quasi certamente i nostri progenitori si arrampicavano pericolosamente sugli alberi più alti della foresta, solo per riuscire a raccogliere queste bacche rosse, povere di potere nutritivo, ma spinti da una grande sorpresa verso una situazione inaspettata. E’ il concetto di “serendipità” alla base dell’ “ipotesi paleolitica” formulata da McGovern (2003), secondo la quale, alcuni uomini primitivi, attratti dai colori accattivanti degli acini, raccolsero qualche grappolo d’uva selvatica, rimanendo sedotti dal suo gusto aspro e zuccherino. Probabilmente ne deposero diversi grappoli in qualche recipiente (di pelle, legno o pietra) e dopo qualche giorno, sotto il peso dei grappoli sovrastanti, dagli acini di quelli più bassi trasudò del succo.

I lieviti della fermentazione, poi, presenti naturalmente sulla buccia degli acini e liberi nell’aria sotto forma di spore, probabilmente trasformarono quel succo in una sorta di vino spontaneo e primordiale a basso tenore alcolico (poco più di un succo semi-fermentato). Una volta mangiati tutti gli acini, il nostro antenato paleolitico assaggiò più o meno volontariamente quella bevanda, restando avvinto da una piacevole euforia che gli instillò un unico pensiero fisso: berne ancora per avvicinarsi a Dio o cadere negli inferi dell’ebbrezza. Infatti non fu certo l’aroma del vino, oppure un piacevole retrogusto, ad interessare per primo l’attenzione dei nostri antichi progenitori ma piuttosto i suoi effetti. In una esistenza quanto mai ingrata, brutale, pericolosa e soprattutto breve coloro che per primi provarono gli effetti dell’alcool credettero di avere avuto un anticipo del paradiso: le ansie scomparvero, i loro timori si attutirono e le idee si formarono più facilmente, tanto da sentirsi per un breve lasso di tempo onnipotenti. Nonostante l’ebbrezza ed i suoi effetti le sensazioni finchè duravano erano troppo belle per resistere alla tentazione di provarle di nuovo (Johnson, 1991).

Però, in assenza di recipienti idonei, quel “Beaujolais nouveau dell’Età della pietra” (McGovern, 2003) doveva essere consumato piuttosto rapidamente, prima che si trasformasse in aceto. Ma le cose cambiarono quando, tra 12 e 10 mila anni fa, le popolazioni umane divennero stanziali, abbandonando il nomadismo e dando vita a insediamenti permanenti che sorsero con la nascita dell’agricoltura: questo fenomeno, noto come la “rivoluzione neolitica”, ebbe come conseguenza l’aumento della densità di popolazione e la necessità di conservare il cibo più a lungo.

 

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