Cantine e vino

Vitis sylvestris e Vitis sativa

La caratteristica in cui la vite selvatica differisce di più da quella coltivata è il sesso dei fiori: la Vitis vinifera L. ssp. sylvestris è una sottospecie dioica, il che significa che tutti i fiori della stessa pianta sono staminati (maschili) oppure pistillati (femminili). La Vitis vinifera L. ssp. sativa, invece, è una pianta ermafrodita, vale a dire che possiede fiori sia staminati che pistillati. Tuttavia, anche una piccola percentuale della silvestris è ermafrodita, sicuramente fu da questo “vivaio” che trasse origine la domesticazione umana della vite. Per garantire un approvvigionamento sufficiente di uva ed evitare il pericolo di arrampicarsi sugli alberi, ben presto l’uomo del Mesolitico o Neolitico cercò di coltivare la vite selvatica, o seminandone i semi, o interrandone delle talee, proprio come la Vitis vinifera fa spontaneamente in natura (nel processo chiamato “propaggine”).

Scegliendo una pianta maschile, la vite non avrebbe mai fruttificato, e quindi sarebbe stata presto abbandonata. Scegliendo una pianta femminile, questa avrebbe fruttificato solo se nelle sue vicinanze si fosse trovata una pianta maschile in grado di fecondarla per impollinazione, altrimenti anche questa pianta sarebbe rimasta sterile e inutilizzabile. Ma scegliendo una pianta ermafrodita, la “vendemmia” era assicurata ogni anno (gli acini di solito si producono per autogamia), e proprio quelle piante furono conservate e coltivate. È per questo che, con molta probabilità, la domesticazione della vite avvenne partendo da quel 2-3 % di viti selvatiche ermafrodite che di solito si osservano nelle popolazioni naturali: su queste osservazioni si fonda l’ipotesi ermafrodita sulle origini della viticoltura. Successivamente, le viti addomesticate furono propagate per seminazione o per talea, e per vari millenni l’uomo ha continuato a selezionare attivamente quelle con gli acini e i grappoli più grandi, col contenuto zucherino più alto o con particolari aromi, dando vita a quell’enorme molteplicità morfologica che oggi osserviamo nelle circa 10.000 varietà di uva conosciute sul Pianeta.

L’ermafroditismo e, quindi, l’autofecondazione rappresentano i caratteri di maggiore interesse agronomico che l’uomo ha selezionato per ottenere una produzione abbondante. Questo processo di selezione (domesticazione primaria), cioè di coltivazione della vite selvatica, sarebbe avvenuto nella regione del cosiddetto Triangolo fertile della vite, un vasto altipiano che si estende tra la catena dei monti Tauri nella Turchia orientale, i versanti settentrionali dei monti Zagros nell’Iran occidentale, e il massiccio del Caucaso (Georgia, Armenia e Azerbaigian), a cavallo del 40°parallelo, circa 8000 anni prima di Cristo, in piena era neolitica (Vavilov, 1926; Negrul, 1938).

Varie analisi sulle correlazioni fra le sottospecie silvestris e vinifera su campioni prelevati in tutti i paesi eurasiatici hanno confermato l’ipotesi dell’area mediorientale come zona d’origine della domesticazione della vite (Myles et al., 2011). Inoltre, dalle indagini focalizzate sul Triangolo fertile della vite è emersa la stretta parentela genetica tra le viti selvatiche locali e le varietà coltivate tradizionalmente in Anatolia meridionale, Armenia, Georgia e anche nell’Anatolia meridionale, avallando l’idea che proprio le sorgenti del Tigri e dell’Eufrate nei monti Tauri siano la zona più probabile in cui collocare la prima domesticazione della vite (Vouillamoz et al., 2004).

Uno studio recente sul DNA finalizzato a scoprire dove e quando fosse stata addomesticata per la prima volta la vite selvatica eurasiatica, fu ribattezzato scherzosamente come Ipotesi di Noè (McGovern, 2003), sia parafrasando la più famosa Ipotesi di Eva (Lucy, ovvero Australopithecus afarensis, una specie estinta di ominide del genere Australopithecus, vissuto nella regione di Afar in Etiopia tra 4 e 3 milioni di anni fa) formulata per la specie umana, in base alla quale sarebbe possibile risalire a un’unica progenitrice tramite il DNA mitocondriale, sia in omaggio alla leggenda che attribuisce a Noè la decisione di piantare il primo vigneto sul Monte Ararat (un massiccio vulcanico nell’odierna Turchia sul quale si sarebbe arenata l’arca di Noè, ma dove non sono mai state ritrovate viti coltivate o selvatiche).

Quest’ipotesi, del resto, si concilia bene col fatto che in questa parte dell’antica Mesopotamia prosperano tuttora popolazioni naturali di vite selvatica, e con una moltitudine di tracce rinvenute da McGovern (2003) risalenti al Neolitico (10500-6000 anni fa) e alla prima Età del Bronzo (10.000 –5.000 anni fa) sulla presenza di Vitis vinifera sia selvatica che coltivata nei siti archeologici ubicati lungo i corsi superiori del Tigri e dell’Eufrate, alle pendici dei monti Tauri.

Quindi, la teoria classica considera il fenomeno della domesticazione come un momento ben preciso, localizzato nel tempo una volta per tutte.

Anche se questo è un aspetto che contrasta, in realtà, con la logica: in un’epoca in cui le fonti alimentari erano piuttosto scarse, appare difficile pensare che le diverse comunità umane del Mediterraneo non conoscessero e, quindi, non utilizzassero una risorsa alimentare come questa. E’ quindi molto più semplice pensare ad un’origine policentrica dei vitigni coltivati. Infatti, se l’ipotesi dell’origine monocentrica della vite, con la sua diffusione verso ovest, fosse vera tutte le varietà di vite sarebbero imparentate fra di loro e avrebbero un genitore (o pochi genitori) comuni. Studi recenti evidenziano l’importanza, per la diffusione della coltura della vite, di centri secondari di domesticazione nel resto del bacino del Mediterraneo, dove è ben documentata proprio la presenza di colonie di vite selvatica; ad esempio, nei fiumi e torrenti della Sardegna è evidente la presenza di numerosi individui, di ambo i sessi, di questa specie botanica.

In realtà i risultati di diverse equipe multinazionali di ricercatori che, utilizzando le più moderne metodologie della biologia molecolare hanno esaminato i vitigni coltivati nelle diverse aree del Mediterraneo e dell’Europa, confrontandoli inoltre con quelli delle viti selvatiche delle diverse aree

(Arroyo et al., 2006), sembrano confermare proprio l’ipotesi di un’origine policentrica. Infatti le indagini biologico molecolari portano a raggruppare i vitigni in tre gruppi in base alla zona di origine: il Mediterraneo orientale (per le varietà greche e turche), il Centro Europa (per le varietà francesi e tedesche) e il Mediterraneo occidentale.

Da questi dati si può supporre che se la domesticazione della vite è un fenomeno che, da un punto di vista temporale, è avvenuto prima nel Caucaso (ed effettivamente in quest’area sembrano aversi i primi riscontri archeologici dell’utilizzo della vite da parte dell’uomo); comunque anche in altre aree del Vecchio Mondo, in diversi periodi e ripetuti nel tempo, si sono avuti fenomeni di domesticazione.

Ogni vitigno è quindi il risultato di una interazione particolare tra uomo e ambiente, e, nella sua accezione più ampia, un vero e proprio prodotto culturale.

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