La conservazione della natura all’interno di ambienti fortemente antropizzati, il recupero di suoni, odori e colori e del loro valore ricreativo e didattico sono al centro da alcuni anni di un vivace dibattito culturale proprio perché sono ritenuti indispensabili per una migliore qualità della vita, sia fisica che mentale (Thompson et al., 2005), anche negli spazi urbani dove la presenza di animali selvatici e piante spontanee, di spazi ricreativi e luoghi di incontro rappresenta un’occasione educativa e istruttiva che procura benessere ad ognuno di noi per il bisogno di contatto con la natura (Clement, 2008).
Anche gli ambienti agricoli, che sono stati creati con il lavoro dell’uomo, rappresentano dei luoghi ricchi di specie, la cui perdita, degradazione o frammentazione costituiscono una minaccia per l’ambiente.
Dove l’agricoltura è intensiva l’impatto sull’ambiente crea grossi squilibri: le lavorazioni, il diserbo, l’asportazione della materia organica, le concimazioni con prodotti di sintesi (vere e proprie azioni di disturbo dell’equilibrio della cenosi agricola) impoveriscono il suolo dal punto di vista chimico, strutturale e biologico mentre le aree agricole fertilizzate con azoto e diserbate perdono la ricchezza della vegetazione spontanea a favore delle monocolture.
Per questo motivo le buone pratiche agricole di carattere conservativo, oltre a promuovere la riduzione degli input, prevedono di seminare ai margini dei campi coltivati fasce di fiori spontanei, o di creare delle siepi di arbusti, proprio per aumentare la presenza di impollinatori e di altri insetti utili che migliorino la resilienza dell’agroecosistema. Tali aree possono prendere il nome di sown grass o wildflower strips, a seconda delle specie utilizzate, rispettivamente graminacee foraggere o flora spontanea a fiori vistosi, dove l’ecosistema diventa un vero e proprio elemento del terzo paesaggio (Colugnati&Cattarossi, 2018) e sono tanto più utili quanto si considera il loro ruolo nel contrasto alla perdita di biodiversità oltre che alla erosione di superfici agrarie cosiddette marginali; in zone collinari, in particolare, si richiedono spesso onerosi interventi di sistemazione dei pendii. Si pensi, ad esempio, ai terrazzamenti coltivati a oliveto e vigneto dove la gestione agricola deve comprendere, oltre al controllo della vegetazione infestante, la manutenzione dei muretti a secco (finalmente assunti a icona di bene immateriale dell’Umanità) e il contenimento del suolo che, se abbandonato, provocherebbe smottamenti e frane, con danni ambientali incalcolabili. Questi ambienti agricoli sono ricchi di specie erbacee, portatrici di una biodiversità molto elevata; alcune di queste sono diventate addirittura rare come Agrostemma githago L. e Cyanus segetum Hill.
Esempi di colture di questi ambienti agricoli collinari e montani sono olivo, vite, cereali tradizionali come il farro e legumi. La tecnica di coltivazione in questi ecosistemi normalmente non prevede interventi chimici, come diserbanti, e le sementi sono auto prodotte in azienda; in questo modo, oltre a mantenere la biodiversità delle specie coltivate, la pulizia delle sementi non è mai tale da eliminare quella quota di infestanti che è composta da fiori vistosi e ornamentali, tanto da creare dei siti di interesse turistico come i campi di lenticchie di Castelluccio in Umbria, famosi ormai anche al di fuori dell’Italia (Gibbons, 2011).