Queste sono specie erbacee perenni annuali, adatte ad essere seminate in miscuglio per la costituzione di prati misti, gestiti in modo sostenibile con un grado di manutenzione ridotto a un insieme di pratiche minime (preparazione del letto di semina, semina, sfalcio). Tra queste specie sono comprese mono e dicotiledoni tipiche delle associazioni legate ad ambienti agricoli tradizionali (prati/pascoli, campi, oliveti e vigneti marginali, ecc. (Piotto et al., 2010).
Nel mondo anglosassone per indicare queste piante si utilizza il termine di wildflowers che di fatto sta a significare sia il fiore di una pianta selvatica o, comunque, non coltivata dall’uomo, sia la pianta stessa che lo porta; questa denominazione non è stata coniata di recente ma certamente era già entrata nel vocabolario alla fine del ’700 e veniva utilizzata a volte nella descrizione del giardino romantico per indicare le piante erbacee spontanee nelle aree sottochioma, quindi in ombra, o più in generale i prati formati da specie spontanee (Serra, 2000).
Tuttavia, soltanto recentemente il termine ha assunto una larga diffusione in virtù dell’azione di recupero e rinaturalizzazione di aree degradate e di conservazione della natura. Dalla definizione si evince che non ci si riferisce esclusivamente, come si potrebbe pensare, alle sole piante autoctone, ma a tutte le piante “non coltivate” in grado di riprodursi senza l’intervento dell’uomo (Duncan e Foote, 1975). Comunemente con il termine wildflowers ci si riferisce alle specie erbacee, annuali, bienni e perennanti (Coile, 2002), con fiori evidenti, che hanno una valenza estetico-paesaggistica e naturalistica e che possono essere impiegate nell’arredo di spazi verdi per la ricreazione, la socializzazione e la didattica ambientale (Clement, 2008), ma che possono utilmente essere integrate in progetti di vigneti conservatoire.
L’impianto dei wildflowers può ricostituire, culturalmente, la soluzione di continuità tra paesaggio antropizzato e paesaggio naturale. Le piante erbacee, inoltre, presentano un insediamento molto rapido e sono quindi in grado di coprire il suolo in un lasso di tempo molto breve senza richiesta di irrigazioni di soccorso. Alcune specie, infine, si prestano alla coltivazione su suoli di scarsa qualità e anche in condizioni di bassa manutenzione e assenza di apporti nutritivi e/o idrici. Ciò comporta, di conseguenza, una diminuzione dei costi di gestione e il raggiungimento di una manutenzione sostenibile. Tali piante, sempre utilizzate in miscuglio, non solo aggiungono, rispetto ai tappeti erbosi tradizionali, monofitici o costituiti da sole graminacee, una policromia spaziale e stagionale, ma contribuiscono a esaltare la biodiversità per la capacità di attirare uccelli, farfalle e insetti pronubi senza turbare gli equilibri biologici dell’ambiente.
Sull’opportunità o meno di puntare solo sulle specie autoctone per incrementare la biodiversità le opinioni non sono allo stato attuale concordi (Sackville Hamilton, 2001).
In ogni caso l’individuazione di piante autoctone, dotate di caratteristiche interessanti per l’impiego quali wildflowers, non potrà che arricchire l’offerta oggi disponibile di piante da impiegare nei progetti di salvaguardia e sviluppo della biodiversità: deve essere chiaro, però, che tale opportunità potrà essere assicurata solo se si avvierà un serio e approfondito lavoro di osservazione e studio delle potenzialità della flora erbacea autoctona, sito-specifica.
Le possibilità in questa direzione sono molto ampie laddove si consideri che la flora mediterranea è estremamente ricca: una volta dimostrata la loro possibile domesticazione e a seguito di una adeguata commercializzazione, le specie autoctone potrebbero anche essere valorizzate come produzioni tipiche, in grado di ritagliarsi uno spazio nel mercato (Tesi et al., 2002).