Nei precedenti interventi su questo blog, abbiamo cercato di chiarire come il ricorso ai soli concimi minerali ed agli ammendanti organici, utilizzati per intensificare la produttività, non ha risolto i problemi di fertilità biologica e strutturale dei suoli dei vigneti.
Appare quindi necessario fare ricorso alla cosiddetta biodiversità pianificata o sito-specifica, che si sviluppa nelle associazioni tra specie legnose (vite) e quelle erbacee (cotico erboso) con modalità spaziali, temporali e di utilizzo molto diverse e contemporaneamente con nuovi criteri di gestione quali sovesci, lavorazioni alternate, ecc. ancora poco oppure parzialmente esplorate.
Queste associazioni vegetali (anche nelle aree non direttamente interessate alla coltura) hanno obiettivi multipli ed assumono ruoli prevalenti a seconda delle problematiche che devono risolvere: proteggere il suolo dall’erosione o dal calpestamento, catturare azoto dall’aria, respingere i bioagressori o attivare gli ausiliari, ridurre le emissioni di gas-serra, ecc.
Si considerino, ad esempio, gli ecosistemi collinari dove è localizzata una porzione importante della nostra viticoltura e dove il diverso grado di praticabilità degli insediamenti pone all’attenzione degli operatori tutta una serie di problematiche tecniche, logistiche ed economiche: proporre soluzioni ecocompatibili (e praticabili) di queste tematiche in terroir fragili (ma unici) quali quelli declivi o residuali appare strategico, pena lo sconvolgimento dell’equilibrio pedologico e il progressivo depauperamento di tanta parte della nostra viticoltura oltre la perdita di socialità rurali.
Nella prospettiva di un’agricoltura sostenibile, in cui situazioni di semi-naturalità (siepi, striscie di prato di varia natura, sponde naturaliformi di fossi e canali, piccole zone umide, aree boschive ristrette, ecc.) vengono recuperate a costituire, negli ambiti coltivati, un diffuso reticolo di ambienti ad elevato livello di complessità, anche i vigneti collinari oppure in aree residuali, possono rappresentare un elemento importante per il mantenimento della biodiversità agro-ecosistemica ed il miglioramento complessivo del territorio nel suo insieme. Sono le aree scarsamente o per nulla coltivate, troppo spesso abbandonate, per motivi logistici oppure economici, ma che possono diventare da un lato elemento importante di diversificazione biologica ed ambientale e dall’altro di protezione dell’ecosistema suolo.
Escluse dalla coltura principale, queste aree, al contrario, trovano in una copertura a prato-pascolo naturale un mezzo che può coniugare nel migliore dei modi protezione del suolo, livello accettabile di biodiversità (con conservazione di specie vegetali ed animali tipiche delle cenosi erbacee), miglioramento delle caratteristiche chimiche e microbiologiche del suolo, miglioramento della qualità ambientale del territorio e costi di gestione contenuti determinati dal basso livello di manutenzione richiesto. Normalmente questa copertura vegetale trova il suo modello di riferimento nelle cenosi erbacee dei prati-pascolo meso-xerici non concimati: un tempo molto estesi negli ambiti agricoli settentrionali, sia di collina che di pianura, attualmente sono in fortissima contrazione, sostituiti dalle monocolture e dall’espansione edilizia (spreco di suolo) tanto da correre il rischio di estinzione e conseguente definitiva compromissione del livello di diversità biologica degli ambiti agricoli. In questa logica, piccole ma significative esperienze sono state proposte al fine di valutare, selezionare e recuperare situazioni floristico-vegetazionali in cenosi di prossimità ad insediamenti viticoli finalizzate a promuovere processi spontanei di insediamenti di cotici erbacei ad elevato grado di naturalità. Per uno sviluppo adeguato della microfauna è auspicabile una composizione floristica elevata e costituita da piante perenni. Inoltre la loro continuità alimentare può essere garantita dalla presenza nelle vicinanze del vigneto di siepi, scarpate e piccoli boschi. A questo riguardo l’aspetto più importante è quello di favorire la presenza costante di piante in fioritura, in quanto sono i nettari ed il polline le fonti alimentari degli insetti antagonisti: l’assenza di 7-10 giorni di fiori può essere fatale per alcuni parassitoidi.
Tali modalità operative, fra l’altro, hanno evidenziato un profondo cambiamento nei rapporti tra la vite ed alcuni aspetti negativi legati alla condizione di monocoltura del vigneto, in un’ottica di protezione integrata nei confronti degli artropodi fitofagi, controllati in modo molto efficiente dall’entomofauna infeudata alle erbe infestanti: infatti, alcuni indici di biodiversità quali la presenza di emitteri e di eterotteri hanno mostrato che i cotici prolungati garantiscono una maggiore ricchezza di specie ben strutturate.
Anche gli antagonismi vegetali (allelopatia) fanno parte del ventaglio delle strategie ecosostenibili di possibile utilizzazione e di particolare efficacia in situazioni specifiche, ad esempio nelle situazioni di “ristoppio” stretto dei vigneti (estirpo-reimpianto) quando sovente vengono segnalati fenomeni di sviluppo stentato delle barbatelle, con manifestazioni spesso asintomatiche, riferibili genericamente a stanchezza del terreno. Le cause sono molto diverse e tra queste hanno importanza crescente la diffusione di nematodi, di funghi tellurici, di insetti (es. elateridi) e di altri organismi dannosi. In questi casi si può efficacemente fare ricorso alle cosiddette piante biocide, crucifere del genere Erica e Brassica, che producono sostanze specifiche (glucosinolati) che liberano composti isotiocianati e nitrili, attivi su funghi e nematodi: l’azione di questi composti non si manifesta solamente con la pacciamatura ed il leggero interramento della massa vegetale, ma anche attraverso le radici che rimangono nel suolo.