Come ampiamente noto, il rachide (o raspo) rappresenta un importante organo della pianta che consente il collegamento tra l’acino e il resto della vite, svolgendo quindi importanti funzioni nel trasporto di tutte le sostanze che vanno poi a depositarsi. Rappresenta tra il 3 e il 7% del peso totale del grappolo (ma come volume ben il 30%) ed è costituito principalmente da acqua, per il 75-80%, e tannini, per il 3-5% Altre sostanze sono molto scarse, quali zuccheri (meno dell’1%), acidi organici (0,5%), sostanze azotate (1-1,5%), minerali (2-2,5%): vi sono quindi principalmente lignina e cellulosa, con molti polifenoli, resine e pectine, tutte componenti tipiche del legno.
Proprio la composizione dei raspi è il motivo principale dell’intenso dibattito tecnico circa il loro impiego: che piaccia o no, essi sono i protagonisti negli ultimi tempi di una vera e propria riscoperta alla ricerca del difficile (talora impossibile) equilibrio tra tannini eleganti e tannini ruvidi.
L’utilizzo dei raspi nelle fermentazioni delle uve a bacca nera, è una pratica ben conosciuta nella storia della produzione vinicola, caduta però sempre più in disuso, preferendo la separazione degli acini dai raspi attraverso la tecnica della diraspatura. Ad onor del vero, però, ci sono sempre state tendenze enologiche più conservative o tradizionali che hanno riportato all’attenzione dei tecnici l’utilizzo dei raspi, in Francia ma anche in Italia, come nei terroir del Barolo e del Barbaresco, e comunque nelle annate in cui i raspi hanno raggiunto maturità particolarmente elevate.
Se ben utilizzati, essi possono apportare un interessante arricchimento sensoriale, specie sulle note speziate ed alcoliche, mentre un loro uso eccessivo non è affatto consigliato, perché porta sentori erbacei, amari e grippy, piuttosto spiacevoli, tutto merito, (dovremmo dire colpa), dei tannini. Al contrario, quando i raspi sono ben maturi l’apporto tannico nel vino sarà elegante, contribuendo ad allungare la struttura (texture) e conferendo sapidità, invece che dolcezza, al finale dei tannini, quando non addirittura note speziate e balsamiche come in certe fortunate esperienze in Barbaresco.
In questa logica si capisce il motivo per cui l’aggiunta dei raspi in fermentazione non equivale necessariamente ad una trama più dura, anzi. I raspi, infatti, contengono potassio, che abbassa l’acidità del vino, e questo spiega la percezione alterata della sensazione tannica. Il modo migliore di usarli è facendo partire la fermentazione con i grappoli interi (Borgogna docet), non diraspati, per beneficiare dell’influenza positiva dei raspi in vasca. Così, una prima macerazione carbonica avviene già con gli acini ancora interi: si tratta di una fermentazione intracellulare, che dalle bucce estrae molto colore e pochissimi tannini.
Oggi il dibattito sull’uso dei raspi sembra implicare aspetti diversi dalla semplice interpretazione della filosofia produttiva.
In Borgogna, come detto, c’è da tempo un filone enologico che si caratterizza per la differenziazione dell’impiego dei raspi ed è una filosofia fermentativa che si diffonde silenziosamente, ma decisamente, da cantina in cantina. Un esempio per tutti: Chantal Rémy (Domaine Louis Rémy) dichiara apertamente (e candidamente) che impiega i raspi, seppur parzialmente, nella produzione dei suoi Grand Cru, Clos de la Roche e Chambertin, e certamente non ne risulta compromessa l’eleganza e la struttura, anzi
L’Italia, come detto, non è stata estranea a questa filosofia di produzione e si contano diversi fortunati esempi, dai Baroli e Barbareschi, a certi Sangiovesi, e ancora Pinot neri e Shyraz, Nerelli mascalese etnei e Schiave altoatesine, ma anche straordinari Verdicchi.
Insomma, un mondo da scoprire!