Abbiamo riscontrato con piacere che la nota precedente ha sollecitato un interessante dibattito al riguardo: come accennato nelle sue premesse, è nostra intenzione in questo spazio proporre alcune riflessioni riguardo la biodiversità in senso lato, sulla scorta di nostre trentennali esperienze professionali ma soprattutto sulla base della considerazione che ancora tali argomenti siano oggetto, purtroppo, di confusione se non di mistificazioni.
L’ultima rivoluzione agricola, basata su vitigni selezionati, sull’uso di concimi minerali ed antiparassitari di sintesi, ha prodotto una sorta di industrializzazione della viticoltura e la biodiversità nel vigneto è stata vista, spesso, come un fattore limitante da eliminare. La viticoltura e la natura rappresentavano allora due spazi ben delimitati, gestiti con regole profondamente diverse: lo spazio viticolo, destinato alla produzione, e quello naturale da preservare.
Al contrario, la biodiversità in viticoltura svolge un ruolo essenziale per la valorizzazione dei diversi ambienti di coltivazione e per le diverse esigenze dei modelli di consumo nonostante l’intensificazione dei processi produttivi; si manifesta però soprattutto nelle scelte varietali, mentre è sostanzialmente trascurato l’aspetto relativo all’ecosistema dove la vite è coltivata, il suolo del vigneto ed il suo intorno naturale (Colugnati, et al., 2013).
In quest’ottica appare quindi necessario superare la visione vitigno-centrica del vigneto per proteggere e valorizzare la biodiversità dell’insieme dell’ecosistema viticolo, integrando e facendo convergere le discipline e le conoscenze agronomiche con quelle ecologiche, per sviluppare un nuovo concetto di agro-biodiversità che inglobi le popolazioni dei vitigni coltivati con tutte le specie viventi nel vigneto, siano esse animali o vegetali o microbiche, aggressive o utili, telluriche o aree. Il tema trasversale comune a tutte le forme di coltivazioni erbacee ed arboree è la copertura del suolo, come espressione di una sinergia tra la gestione della coltura principale e quella del cotico erboso, al fine di ridurre l’effetto competitivo della flora avventizia con la non-lavorazione, l’uso del mulch, l’impiego di leguminose azoto-fissatrici, l’arricchimento sistematico di sostanza organica, la lotta biologica.
Sulla base di queste considerazioni, accanto alla viticoltura convenzionale, che massimizza il rendimento dei fattori produttivi impiegati anche attraverso un elevato impiego della meccanizzazione, a partire dagli anni Settanta si è sviluppata, quasi in contrapposizione, la viticoltura biologica, che rifiuta l’impiego dei prodotti di sintesi e si affida soprattutto al mantenimento della fertilità fisico-chimica dei suoli per garantire la sopravvivenza della coltura della vite nel tempo.
Il vero salto di qualità nella gestione del vigneto è però rappresentato dalla viticoltura durevole (Scienza, 2013) che rappresenta quella forma di produzione che risponde ai bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di rispondere alle loro necessità e si basa, sostanzialmente, sul rispetto dei limiti ecologici ed ambientali di ogni territorio e sulle potenzialità economiche e sociali dei viticoltori di quel territorio. Questo tipo di viticoltura si propone obiettivi molto più ambiziosi dei precedenti quali limitare l’effetto serra, ridurre la degradazione del suolo, limitare la dipendenza energetica fossile, ridurre i rifiuti e moderare l’uso degli antiparassitari: in sostanza è una forma di viticoltura integrata che porta alla creazione di un sistema produttivo con una grande autonomia ecologica. Essa parte dalla considerazione che la viticoltura, in quanto forma di produzione agricola intensiva e quindi poco virtuosa per l’ambiente, può avere effetti meno aggressivi se riesce a ridurre gli input esterni ed a valorizzare quelli interni all’ecosistema naturale, andando verso un modello di viticoltura alternativa a quella attuale della monocoltura, rendendolo più complesso attraverso la consociazione delle vite con altre specie vegetali ed animali, per realizzare un ecosistema produttivo meno esigente e capace di migliorare la sua resilienza ed adattabilità alle modificazioni esterne, quali i cambiamenti climatici.
Il panorama degli scenari intermedi è ovviamente molto ampio ma, al netto delle posizioni ideologiche (biologico e biodinamico), la principale discriminante tra le due viticolture consiste nelle modalità di gestione del suolo e soprattutto nelle implicazioni che questa pratica ha in tutte le altre tecniche colturali applicate nel vigneto. Comunque la si pensi, però, la tendenza in atto è verso un loro progressivo riavvicinamento: la prima è costretta a rivedere i propri processi produttivi per diventare più durevole, la seconda dovrà investire maggiormente sul suo patrimonio biologico come fattore di adattamento futuro.